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Pomigliano dà gas e riparte

di Marco Alfieri

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L'aula consiliare occupata dagli operai non rinnovati dal Lingotto è a dieci minuti a piedi. Come il capannone verniciatura dell'Alfa su cui si è arrampicato prima di Natale un gruppetto di contrattisti Fiat, e lo stabilimento Alenia da cui sono usciti i pezzi in fibra di carbonio del nuovo Boeing 787 Dreamliner.
Antonio Romano ti guarda fisso negli occhi e sorride. Somiglia vagamente a Nino Frassica, ma più chiaro nei lineamenti. La sua Romano Autogas progetta e produce serbatoi gpl e in futuro vorrebbe trasformarla in una holding operativa nella green economy, ramo carburanti alternativi. Che a dirlo da Pomigliano d'Arco, dove l'azienda è nata nel 1975, al centro di un territorio in cui circola il maggior numero di auto inquinanti d'Italia, sembra il miracolo di chi vorrebbe vendere i frigoriferi in Alaska. Ma la realtà riesce sempre a sorprendere.
In principio fu la Renault 4, la prima auto prodotta dal Biscione in Campania su licenza della casa francese. «Da ragazzo passavo a vederla costruire, era bellissima», s'intenerisce il signor Antonio. Uno dei tanti adolescenti appassionati di motori partiti dal fondo della piramide: prima meccanico generico, poi installatore Tartarini fino al '78 , quando diventa distributore. Poi ancora, dall'82, dopo la crisi dei metalli, la produzione diretta. Inizia un ventennio allo spasimo: nottate intere su iniettori e carburatori, un viaggio via l'altro e la sfida con competitor tutti maledettamente al nord.
In quegli anni il gpl era puro Far West. Mancava dove andare a mettere il gas, era tutto abusivo (l'industrializzazione degli impianti di rifornimento inizierà nell'86). Non bastasse, per i Romano c'era la diffidenza sudista da scrollarsi di dosso. «All'inizio abbiamo pagato a caro prezzo il made in Naples. Ci dicevano mettete la sede legale al nord, è più facile. Ma mio padre è una testa dura e ha resistito, per orgoglio», ricorda il figlio Luigi, 32 anni, oggi a capo del marketing (l'altro figlio, Agostino, cura l'officina).
La svolta internazionale arriva nel '96 quando il signor Antonio vola in Costarica, dove scriverà la legge sul gpl insieme al ministro dei Trasporti locale. L'intuizione è giusta. «Invece che andare in Brasile a fare la guerra sul prezzo ai competitor, uno staterello vergine del Centro America». Qualche mese in trasferta per istruire maestranze locali, capotecnici e direttori di azienda e nel '97 i Romano creano la prima società estera. Poi è la volta della Romania. Sempre nella logica di offrire commercializzazione e assistenza per servire i mercati locali. Non da terzisti al carro altrui, ma con prodotti originali. Partono altre start up come in Repubblica dominicana, il fiore all'occhiello, per un export che vale il 70% sul fatturato totale (pari a 21 milioni) con prodotti distribuiti in più di trenta paesi (dall'Argentina all'Australia), 110 addetti tra produzione, commerciale e distribuzione, e il 6% dei ricavi investiti in R&S. Nel 2000 arriverà il nuovo stabilimento di via Passariello, dove si produce il pezzo dal primo all'ultimo tassello «perché non c'è un distretto di artigiani vicini a cui esternalizzare come al nord – continua Luigi –. I nostri competitor sono di fatto dei sistemisti, noi siamo pura manifattura, non avremmo alternative: dal gpl, anche per le auto diesel, al metano. Impianti a carburatore, a iniezione non catalitici, catalitici, impianti sequenziali a iniezione diretta e via elencando.
Il modello internalizzato funziona. Quest'anno il fatturato dei Romano ha tenuto bene nello tsunami. Il volume produttivo è salito a 100mila kit l'anno. Niente cassa integrazione, una resa sulla componentistica affinata all'1,8%, e sviluppo della rete commerciale con la nascita del Romano Autogas service sul modello Bosch. Trecento officine certificate per l'installazione di impianti, lavorando sul brand, offrendo viaggi premio agli installatori che fanno il budget e corsi di immagine. «Prima si andava a caso. Se c'era l'installatore in loco, bene, altrimenti si passava al benzina. Adesso se un cliente ha un problema con l'impianto c'è uniformità da Bolzano a Canicattì». Ma soprattutto, negli ultimi mesi sono in molti a bussare alla porta. Merce rara assumere nella crisi. «Ogni giorno arrivano 6-7 curricula. Molti dalle vicine Fiat e Alenia, ma anche dal nord». Una specie di migrazione professionale al contrario. «Nel frattempo abbiamo spinto sulla comunicazione televisiva e le telepromozioni Rai». Insomma un fiore tra i rovi di un sud rimasto maledettamente sud. Distillato di quelle 115mila Pmi italiane che la furia della crisi ha spinto a spostarsi sugli anelli più pregiati delle rispettive filiere, tanto che oggi il 72% di esse presidia spazi di mercato ad elevato valore aggiunto.
A pochi passi dalla normalità dei Romano, il gigante malato dell'Alfa alle prese con le convulsioni del nuovo fronte dell'automotive mondiale. Da Volkswagen che compra il 20% di Suzuki, fortissima sul mercato indiano, puntando dritto al primato di Toyota alla nuova Fiat "americana" di Sergio Marchionne, decisa a mettere in comune con Chrysler più piattaforme possibili trasformando Detroit nel centro per ibridi e veicoli elettrici a livello globale. Quanto alla provincia italiana, via da Termini in una manciata d'anni, politica permettendo, e produzione a singhiozzo a Pomigliano dove oggi i turnisti in cassa lavorano tre giorni al mese e si proverà a rimetterli in catena portando un po' di Panda. Certo una miseria rispetto al pieno regime degli anni passati: i 15mila addetti tra Fiat e indotto, i 2mila dell'Alenia (dal mese prossimo a rischio Cig) e la vecchia Sevel prima della chiusura per eccesso di produzione. Finché ci sono i miliardi per la cassa, la pace sociale è assicurata, ma a Pomigliano molti uccellacci cominciano a volare basso in questo freddo gennaio perché c'è come un supplemento di meridione in queste lande.
  CONTINUA ...»

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